La ricreazione virtuale di scene, persone o oggetti può essere utilizzata in terapie per trattare fobie, violenza sessuale, abuso di sostanze, ecc. Il suo uso in casi di violenza di genere è già applicato in misure penali alternative e all’interno delle prigioni (El Mundo)

Associamo i simulatori e gli occhiali di realtà virtuale all’uccidere zombi e attraversare precipizi su ponti spaventosi, anche se siamo nel salotto di casa nostra. Legate al tempo libero, queste strumenti tipici dei videogiochi suscitano negli utenti sensazioni molto reali. Tanto è vero che sembra incredibile che siano solo finzione. Il potenziale della realtà virtuale va oltre l’industria ludica e l’immersione in situazioni e scene fittizie ha applicazioni così diverse come il trattamento di fobie, terapie per combattere la violenza sessuale, l’abuso di sostanze, ecc. Le prigioni sono state negli ultimi anni un ambiente favorevole per la loro implementazione con diversi scopi. Negli Stati Uniti, per esempio, viene utilizzata nelle carceri dell’Ohio, dell’Alaska, del Colorado e del Michigan per sviluppare l’empatia verso le vittime, ridurre la recidiva di reati, addestrare alla vita in libertà i detenuti che sono entrati in giovane età, ecc. Lo scopo è che un paio di occhiali di realtà virtuale aiutino i detenuti a destreggiarsi in un colloquio di lavoro, a fare la spesa, a usare un bancomat… Può sembrare semplice ma per qualcuno che ha passato anni in carcere il punto di partenza è ben diverso.

In Spagna il progetto di implementazione di queste tecnologie nelle prigioni è stato pensato per un “pubblico” specifico: i detenuti condannati per violenza maschilista.

La realtà virtuale è uno strumento in più e deve essere integrata in programmi globali di riabilitazione, con terapeuti, ecc. Attualmente, viene utilizzata nelle prigioni catalane e sono iniziati programmi pilota a Madrid, Tenerife, La Coruña e Vigo ma si applica anche fuori dalle carceri per quei condannati che possono, senza entrare in prigione, aderire a misure penali alternative. Il progetto specifico sulla violenza di genere consiste nella ricreazione di una scena in cui l’aggressore si collega con un avatar femminile per scambiare i ruoli, sviluppare l’empatia con la vittima e ridurre i comportamenti violenti. L’aggressore esercita violenza verbale e si avvicina fisicamente alla donna.

L’idea è fornire a qualcuno un’esperienza dalla prospettiva di un’altra persona, e assistere per esempio a una scena di violenza maschilista attraverso gli occhi di un bambino. Uno dei vantaggi offerti dalla realtà virtuale sta nel fatto che questo strumento è molto potente perché funziona meglio come empatia dal punto di vista esperienziale. Alcuni profili di questi detenuti sono molto complessi, anche con difficoltà cognitive e la realtà virtuale supera quella barriera.

La scena con cui attualmente si lavora nei programmi di riabilitazione descrive una situazione di violenza psicologica e non trattandosi di aggressioni fisiche, alcuni maltrattatori non riconoscono di aver commesso alcun reato: faticano a capirlo, ma dopo “vivere” la situazione con la realtà virtuale, fa comprendere meglio il danno che è stato fatto insultando, urlando o con il loro linguaggio corporeo.  Progettare le scene è qualcosa di complesso. Vengono lette sentenze reali, si parla con le vittime perché si cerca di copiare il più possibile la realtà. Ora è quasi pronta una simulazione sulla violenza filio-parentale, che dovrebbe essere pronta quest’anno.

Con l’“incarnazione virtuale” il cervello può connettersi a un altro avatar attraverso esperienze extracorporee. Ci si guarda nello specchio virtuale e in poco più di un minuto si è connessi a un altro corpo. Nel caso della violenza di genere queste tecnologie hanno dimostrato efficacia nel caso di uomini con difficoltà ad empatizzare: dopo aver vissuto la scena, manifestavano di sentirsi prigionieri nel corpo femminile e si riconoscevano nel ruolo dell’aggressore. Restavano, in generale, molto colpiti anche se ci sono maltrattatori senza alcuna empatia che hanno mostrato solo rabbia verso la vittima. Erano dalla parte dell’aggressore. In loro il metodo non è risultato efficace.