(El Pais) Il Mexican Handshake Speakeasy emula i vecchi luoghi clandestini emersi negli Stati Uniti con la legge proibizionista
Il bar è nascosto dietro una porta con il numero 13. L’Handshake Speakeasy è il miglior bar del mondo. O, almeno, questo è ciò che dice la classifica annuale dei 50 migliori bar del mondo. Si trova nella Zona Rosa, un quartiere nel centro di Città del Messico che è pieno di impiegati di giorno e di notte ospita le feste della comunità LGTB. L’hotel accanto al luogo nasconde l’ingresso. Non vi è alcuna indicazione che si tratti di un bar. Il cervello impiega un po’ di tempo per elaborarlo. Una cameriera apre la porta e si entra in una piccola sala buia. “Senza attraversare il sipario”, avverte. Finché non passa e lo apre. Tutti i lavoratori, indossando grembiuli neri su camicie bianche, gridano in coro: “Benvenuto!”. Ed eccolo lì, ora sì, il miglior bar del mondo. È una stanza buia e piccola senza finestre. È illuminato da una dozzina di lampade appese al soffitto che gettano una fioca luce arancione sui mobili minimalisti neri e dorati. A destra c’è il bar, a sinistra un enorme specchio un po’ rococò. Incollati alle pareti, divani in pelle nera bordati da tavolini con candele. Al centro, un tavolo alto e sgabelli.
E’ un po’ come il bar dove si immagina beva il Grande Gatsby fino alle prime ore del mattino. Stile art deco, consueto negli edifici classici dei quartieri ricchi del vecchio distretto Federale, e un tocco di Inghilterra vittoriana per l’onnipresente nero. Tutto è misurato al millimetro. I camerieri portano ai commensali asciugamani caldi e umidi in una scatola di legno per lavarsi le mani. Acqua e noci come condimento. Poi, il menu dei cocktail, progettato dall’olandese Eric Van Beek, con bevande di nomi come “Once upon a time” in Oaxaca (C’era una volta a Oaxaca), che viene presentato con una palla di lana d’acciaio che viene data alle fiamme per imitare come viene cotta l’agave quando si prepara il mezcal.
Ogni cliente può stare al bar per un’ora e mezza. Le bevande vanno da 200 a 300 pesos (tra 10 e 15 euro), più o meno quello che un messicano medio guadagna al giorno. Questa esclusività fa parte del fascino che Handshake vende. Inoltre, probabilmente, la ragione per cui la maggior parte dei clienti sono bianchi e parlano in inglese.
Gli speakeasy sono nati negli Stati Uniti al tempo del proibizionismo, che vietava l’alcol nel 1920. Erano squallide baraccopoli con la facciata di altre imprese, nascoste alla polizia, alimentate dal contrabbando. Erano il motore economico di Al Capone e di tutti quei gangster dagli abiti sgarcianti e i mitra Thompson nascosti in custodie per violino. Di questo non rimane altro che il nome. Né la clientela. Qui si vedono solo persone belle, giovani e ben vestite. Anche lo staff è elegante, 34 lavoratori che cambiano ruolo ogni giorno: fanno i giocolieri con il cocktail shaker, oppure servono ai tavoli o si occupano del laboratorio, il team che prepara gli ingredienti al mattino per la sera.