(Le Figaro) Nel Paese del Sol Levante il 70% dei cittadini si dichiara ancora favorevole alla caccia del grande cetaceo, una tradizione nata nel dopoguerra per trovare in mare le proteine che in terra mancavano
Il recente arresto dell’attivista canadese Paul Watson in Groenlandia ha riacceso le tensioni globali riguardo alla continua pratica della caccia commerciale alle balene da parte del Giappone. Nonostante il calo del consumo interno e le crescenti pressioni internazionali, il Giappone ha difeso le sue pratiche di caccia alle balene, citando motivi culturali e storici. In effetti sui muri dei villaggi costieri giapponesi si trovano ancora incisioni che raffigurano decine di abitanti intenti a macellare una gigantesca balena. Ma il suo sfruttamento a fini alimentari ebbe luogo principalmente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il Paese in rovina, incoraggiato dall’occupante americano, rimandò in mare i suoi balenieri per trovare nei cetacei le proteine che mancavano sulla terraferma. In pochi anni, la balena divenne un alimento familiare agli scolari dell’Arcipelago. Si abituarono a gustarla in mensa, su una ciotola di riso. Nei ristoranti, divenne pretesto per quell’infinita varietà di preparazioni di cui sono capaci i giapponesi: cruda, fritta, bollita… Nel 1965, anno record, il Giappone ingurgitò più di 200.000 tonnellate di balena. Da allora, il suo consumo non ha smesso di diminuire fino a rappresentare oggi l’1% di quello del 1965, cioè solo 16,7 grammi per giapponese all’anno. La sua caccia appare condannata. Il suo costo proibitivo finanziario e umano, l’esclusione progressiva delle nazioni che ancora vi si dedicano, infine i cambiamenti nei modelli alimentari giapponesi l’hanno ridotta a una questione di cultura locale… ma ingigantita a una questione internazionale tanto il disgusto mondiale che suscita ha colpito nel vivo le autorità nipponiche. Anche se i giapponesi non la consumano più, il 70% si dichiara ancora favorevole alla sua caccia.
Nel 2018, il Giappone si è ritirato dalla Commissione internazionale per la caccia alle balene e si è impegnato a non cacciare più i cetacei se non nella sua zona economica esclusiva. E si è concesso una beffa gigante inaugurando il 3 aprile, con grande pompa, nel porto di Shimonoseki (nord del Giappone), il Kangei Mani. Un enorme “battello-fabbrica” che serve a trattare le balene catturate in mare, mostro marittimo di una stazza di 9.300 tonnellate e una lunghezza di 117 metri, al costo di 7,5 miliardi di yen (44 milioni di euro). Sebbene l’importanza economica della caccia alle balene sia diminuita, essa rimane profondamente radicata nella cultura giapponese. Per molti giapponesi, la caccia alle balene è però vista come parte del loro patrimonio marittimo e un simbolo dell’identità nazionale.
Le pratiche di caccia alle balene del Giappone sono state ampiamente condannate dalla comunità internazionale, con molti paesi che sostengono che siano insostenibili e inutili. Nel 2018, il Giappone si è ritirato dalla Commissione Internazionale per la Caccia alle Balene e ha ripreso la caccia commerciale all’interno della sua zona economica esclusiva. Questa mossa è stata fortemente criticata dai gruppi di conservazione e da altre nazioni. L’arresto di Paul Watson mette in evidenza le complesse dimensioni legali e politiche del movimento anti-caccia alle balene. Il Giappone ha perseguito azioni legali contro Sea Shepherd e i suoi attivisti per anni, accusandoli di molestie e vandalismo. Mentre Watson e i suoi sostenitori sostengono che le loro azioni siano giustificate dalla necessità di proteggere le balene, le autorità giapponesi mantengono che stiano infrangendo la legge.