Se una ricetta richiede espressamente il sale kosher, qualcuno è un ebreo ortodosso o c’è una ragione gastronomica per usarlo? Risponde il grande chef Yotam Ottolenghi (Guardian)
Il sale kosher non è effettivamente “kosher” (nel senso che non è trattato religiosamente). Storicamente, il nome deriva dalla pratica ebraica di rimuovere il sangue superficiale quando si fa la salamoia a secco della carne e quel processo è noto come kashering. A causa delle dimensioni maggiori dei grani di questo tipo di sale, esso si dissolve più lentamente e uniformemente, il che garantisce una salamoia più uniforme. Inoltre, non contiene additivi o conservanti, quindi ha un gusto molto pulito e salato.
In termini pratici, quindi, la granulometria e la consistenza dei grani di sale kosher significano anche che sono più facili da maneggiare e trattenere tra le dita. Questo dà al cuoco un maggiore controllo, poiché può salare gli ingredienti in modo molto più uniforme, a differenza del sale marino fine, ad esempio, che ha la fastidiosa tendenza a spargersi ovunque o a formare grumi. Come regola generale, Yotam Ottolenghi usa il sale marino fine in salse e liquidi per conserve, perché è facile da misurare con il cucchiaino e perché si dissolve molto più rapidamente rispetto ad altri sali. Usa invece un sale più grosso, come il kosher, per condire carne, pesce e verdure prima della cottura. E usa un sale marino “fioccoso” con cristalli più grandi e irregolari per rifinire i piatti.
Ma attenzione: un cucchiaino di sale marino fine non è lo stesso di un cucchiaino di sale kosher diamond crystal, ed è, infatti, due volte più salato. Alla fine della giornata, tuttavia, non importa davvero quale tipo di sale si usi a casa, purché si sia consapevoli di cosa sia e di come si comporti.