Tra i 40 e i 60 anni, con l’insoddisfazione della vita in agguato, può arrivare una solitudine indesiderata. Comprenderla e combatterla va di pari passo (El Pais)
La mezza età – tra i 40 e i 60 anni, approssimativamente – è una fase vitale di continuo adattamento ai cambiamenti che possono o non possono essere scelti. In questa fase coesistono sentimenti contraddittori: la soddisfazione di aver completato progetti personali, la sensazione che le aspettative non siano state soddisfatte o l’incertezza di un futuro ancora in fase di sviluppo o di transizione. È considerato il momento più basso della soddisfazione della vita. Questo periodo della vita è un momento sensibile alla solitudine indesiderata. Viene definita come una condizione psicologica caratterizzata da un profondo senso di vuoto, inutilità, mancanza di controllo e minaccia personale. L’impatto emotivo della solitudine indesiderata dipende dal fatto che si tratta di una sensazione frequente, anche cronica o momentanea. In Spagna, un osservatorio statale ha calcolato che interesserebbe il 13,4% della popolazione generale e il 12% della mezza età. L’economista Noreena Hertz sottolinea molteplici cambiamenti sociali e culturali associati a queste figure: l’ascesa dei social network che diminuisce il numero di contatti faccia a faccia, l’avanzata dell’individualismo sulla profonda connessione con gli altri, il telelavoro, i cambiamenti nel modello familiare, la dispersione geografica, l’aumento delle persone che vivono da sole, lo scarso impegno nelle attività comunitarie e la perdita dei riti sociali.
La sensazione di solitudine varia tra le persone perché ha una componente soggettiva. Sarebbe più conveniente, quindi, parlare di solitudini anziché di solitudine. Ma c’è un certo consenso nel categorizzare tre tipi: il sociale, l’esistenziale e l’emotivo. La solitudine sociale caratterizza maggiormente coloro che hanno difficoltà nelle abilità sociali, con una tendenza all’isolamento e con una mancanza nella rete di supporto. È legata ai tipi di attaccamento e ai traumi. È influenzata dalle disuguaglianze sociali ed economiche, ed è legata all’esclusione sociale. La solitudine esistenziale è caratterizzata da una disconnessione da se stessi, oltre che dagli altri. Predominano sentimenti di isolamento, alienazione, vuoto, abbandono o paura. C’è una mancanza di significato o di un progetto vitale. È più diffusa tra coloro che affrontano perdite, come separazioni e divorzi, disoccupazione e difficoltà nell’assumerlo (che colpisce soprattutto gli uomini), vedovanza precoce, cambi di residenza o problemi di salute. C’è un altro profilo che, sebbene non abbia avuto perdite, sente non realizzato nella coppia il suo progetto di vita, nella famiglia o nel lavoro. Queste persone fanno un confronto costante tra la vita che conducono e la vita che volevano. Infine, la solitudine emotiva è vissuta da coloro che portano un sovraccarico di responsabilità in diverse aree. Ad esempio, i caregiver, che hanno la sensazione di non arrivare a tutto: soffrono perché il benessere personale dipende dal benessere degli altri (bambini, amici, genitori). Questo crea una sensazione di sentirsi intrappolati. È anche legata alla sensazione di sentirsi soli nonostante siano accompagnati.
Se questa sensazione di solitudine indesiderata nella mezza età diventa cronica, può causare una vecchiaia non essere vissuta pienamente, influenzando la salute e il benessere. Al riguardo ci sono alcune raccomandazioni. La prima sarebbe riconoscere la solitudine e accettarla. La seconda è capire perché ci si sente in questo modo e pensare ai comportamenti che perpetuano il problema. La terza è promuovere esperienze di connessione, legame, appartenenza, vicinanza e intimità. Per le persone che sperimentano una maggiore solitudine sociale può essere conveniente apprendere abilità sociali o modificare modelli cognitivi disadattivi (“nessuno mi parlerà”). Per coloro che soffrono di solitudine esistenziale, la soluzione non è solo quella di favorire le relazioni, ma di essere in grado di vivere meglio con la propria solitudine o di potenziarsi avendo nuovi progetti di vita. Questo significa riconvertirla in un’esperienza più serena. È anche utile offrire supporto e sentirsi utili agli altri. La migliore convivenza con la solitudine emotiva implicherebbe ripensare i progetti e gli impegni familiari, lavorativi o comunitari.
Ma gestire meglio la solitudine non dipende solo dalla volontà individuale. Si tratta di promuovere l’architettura della comunità e di includere organizzazioni pubbliche e sociali che trasformano la società con iniziative che aumentano la connessione sociale e promuovono sentimenti di appartenenza. La solitudine non è uno tsunami, né una malattia, ma qualcosa che tutti sentiamo per tutta la vita insieme alla nostra condizione di esseri vulnerabili. Forse la sfida più grande è accettare la propria vulnerabilità.