Grandi cambiamenti si sono succeduti nei secoli per determinare da quale anno far partire il conto che i cristiani fanno per indicare gli anni (L’Humanité)
In materia di calendari, è più facile copiare che innovare. I nomi dei giorni e dei mesi, così come molte feste cristiane, non fanno altro che reinterpretare antiche usanze romane, traducendole nella lingua di questa nuova religione, direttamente derivata dalle strutture politiche e mentali dell’impero. È il caso del Natale. Il 25 dicembre coincide con il “Dies Natalis”, quando i Romani festeggiavano, con il solstizio d’inverno, il ritorno trionfale dell’astro re. Il primo cristianesimo partecipa a questa mistica solare, sovrapponendo il tempo della rivelazione all’incrocio del simbolismo cosmico e della linearità dei tempi storici. Ecco perché il papa Liberio pregò per la prima volta il 25 dicembre 354 parlando di natività. Natale era nato, e la sua nascita era tutta politica.
La nascita di Cristo non si era tuttavia ancora imposta per segnare l’inizio dell’era cristiana. È vero che per i cristiani l’anno liturgico culmina non il giorno di Natale, commemorando la natività, ma il giorno di Pasqua, in cui si celebra la Passione. Tuttavia, il concilio di Nicea, nel 325, che aveva proclamato la fede nella resurrezione di Cristo come base del credo, definì la data della Pasqua come ciclica e lunare: ciò la rendeva inevitabilmente una data mobile nel calendario cristiano, che è solare. Doveva dunque essere adottato l’anno della crocifissione come l’anno 1 del calendario cristiano? Si tentò per un po’ a partire dal V secolo, nonostante la complessità del calcolo che implicava l’istituzione di questa “era della Passione”. È vero che ciò riguardava solo alcuni monaci eruditi, poiché la stragrande maggioranza della popolazione poco si curava di contare gli anni per annate.
Fu nel 525 che uno di questi monaci, Dionigi il Piccolo, propose – inizialmente nell’indifferenza generale – di far iniziare l’era cristiana non con la resurrezione di Cristo, ma con la sua nascita, Anno Domini: i secoli furono così ringiovaniti di trentatré anni. Così non ci fu mai un anno zero: all’anno 1 prima di Cristo succedette l’anno 1 dopo Cristo. Quanto al numero degli anni, ma a quale data si doveva cambiare? Dionigi prese come riferimento una data fissa, sebbene del tutto fittizia e sdoppiata, tra l’incarnazione (25 marzo) e la nascita (25 dicembre), l’uso di far iniziare l’anno il 1° gennaio, festa della circoncisione di Cristo. Non si impose che nel XVI secolo. Fu in quel momento che il millesimo della natività, il cui uso era stato a lungo riservato ai chierici e agli scribi delle carte, entrò veramente nelle rappresentazioni collettive del tempo e divenne il modo comune di datare. Non si era tuttavia concluso con le complicazioni del calendario. Il calendario giuliano, allora in vigore, aveva previsto di inserire un giorno bisestile ogni quattro anni per tenere conto del fatto che la durata media di un anno solare era di 365 giorni e sei ore. Ma era un’approssimazione che causava uno scarto di dodici minuti all’anno. Il papa Gregorio XIII ordinò di assorbirlo nel 1582: il giorno successivo al giovedì 4 ottobre 1582 fu decretato venerdì 15 ottobre 1582.
Ecco quindi quella riforma del calendario noto come gregoriano che oggi definisce “l’era comune”, imponendo a gran parte del mondo un modo di misurare il tempo. È erroneamente universalista, poiché le sue origini cristiane non vengono sempre esplicitate. E quando lo sono, come nell’espressione “tale anno dopo Cristo”, vengono neutralizzate preferendo “tale anno dopo la nostra era” – perché chi è questo “noi”, allora? Probabilmente chi utilizza, in un mondo globalizzato e senza pensarci, il conteggio della settimana di sette giorni, il cui significato è chiaramente biblico. In effetti, tutto è politico in queste questioni di calendario.